DANTE
E I FEDELI D’AMORE
Attorno alla
parola “amore”, intesa in un senso molto più spirituale e meno comune di quello
odierno, si sviluppò una delle società a carattere
iniziatico che ha contraddistinto il Medioevo a
partire dal XIII secolo. Concetto cardine di quest’antico ordine era la ricerca
della Verità avviata in seguito ad un’illuminazione del tutto personale e
protesa verso il divino; di conseguenza i suoi membri andavano alla ricerca di
una via segreta o occulta (ma anche occultata) comprensibile esclusivamente dai
soli iniziati (coloro che la percorrono, vivono dentro se stessi) che
conducesse a tale sapienza senza mai “volgarizzarla”, nel senso di svelarla
alla massa. La necessità di tramandare un sapere di questo tipo (cioè,
esoterico ed iniziatico) ad un consesso scelto di persone non deve sorprendere,
né dev’essere frainteso come forma di discriminazione. Le
fondamenta dell’esoterismo o ermetismo poggiano, infatti, su un presupposto di
base secondo cui esiste una distinzione tra il volgo – inteso come la
moltitudine di coloro che ignorano o non desiderano accedere al senso di
determinate cose – e i saggi, gli iniziati e gli adepti.
A tal
riguardo, dice Ermete Trimegisto – Grande Maestro fondatore dell’Ermetismo, cui
risalgono alcuni trattati di alchimia e scienze occulte, quali il Corpus Hermeticum e la Tabula Smaragdina detta anche Tavola di Smeraldo:
“… evita di intrattenerti alla
folla; non perché io voglia impedire che ne venga a conoscenza, ma perché non
voglio esporti alle sue derisioni […] Queste lezioni devono essere udite da
pochi, o presto non ve ne saranno più del tutto. Esse posseggono qualcosa di
così particolare che spinge i malvagi ancor più verso il male. Guardati dalla
moltitudine, perché questa non comprende la virtù di tali discorsi.”
Nel caso
dei Fedeli d’Amore,
l’iniziazione era legata fortemente ad un’illuminazione interiore ed
individuale che veniva antropomorfizzata sotto forma di amore per una donna (o
dama), la quale acquisiva una valenza doppia: da un lato, ella era oggetto
dell’amore del Fedele in quanto essere umano e, dall’altro, trasposizione
simbolica di quell’anelito d’amore che conduce ad una ricongiunzione col
divino. In questo senso, la confraternita dei Fedeli d’Amore è spesso fatta
derivare o accostata al sufismo (esoterismo
della religione islamica secondo il quale il traguardo dell’esistenza umana
consiste nell’andare incontro alla Verità, attraversando i sentieri lastricati
di Amore Puro e devozione assoluta) che appunto usava l’allegoria della donna e
dell’amore terreni come contenitori del simbolismo divino. Molte poesie
sufiche, inoltre, gettano luce sull’idea di una purificazione del cuore da
tutte le scorie derivanti dall’esperienza dell’immanente, al fine di
sciogliersi e fondersi col trascendente. Così recita una poesia sufica:
Ho
pensato a Te così spesso
che sono diventato Te.
A poco a poco Tu sei avvicinato
e a poco a poco io sono scomparso.
Il Fedele
d’Amore, iniziato alla Verità scevra dai vincoli terreni, s’incamminava così in
quello che Dante definiva “il lungo cammin di nostra vita”, guidato da
una sensazione divina: l’intuizione di qualcosa che percepiva come più grande
di lui, da cui egli stesso discendeva e a cui anelava con passione ed ardore. È
da ben intendersi che i termini passione ed ardore erano, in questo caso,
utilizzati nella loro accezione originaria e depurati dai quei significati
aggiunti nel corso dei secoli: passione – dal latino patire – identificava una
forte commozione dell’animo, talvolta seguita dal dolore e dal travaglio (momenti,
d’altronde, obbligati nell’ambito di un percorso iniziatico); ardore – dal
latino ardere – rappresentava l’atto dell’essere arso,
consumato dal fuoco dell’amore divino. Niente a che vedere quindi con passioni
o ardori lussuriosi rivolti esclusivamente ad un corpo e non mezzo di
raggiungimento dell’amore divino.
La donna era veicolo e, al tempo stesso,
fulcro di questo movimento di ascesa verso l’alto: decantata per la sua
bellezza infinita e per le forme perfette, ella simboleggiava la Sapienza eccelsa
tramandata e purificata dal Cristo Intimo, ma occultata da un velo che impediva,
a chi non ne era degno, di goderne la vista. Il culto della donna e del suo
corpo come archetipi di bellezza suprema ricorreva anche in un movimento
letterario – definito da Dante Dolce
Stil novo nel XXIV canto del Purgatorio – che vide la luce tra la fine del
Duecento e gli albori del Trecento e che confluì in una scuola poetica iniziata
da Guido Guinizzelli. Vi presero parte artisti del calibro di Dante Alighieri,
Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino
Frescobaldi.
Secondo
alcuni studiosi (come Luigi Valli nel suo Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, René
Guénon con L’esoterismo di Dante e molti
altri) gli stilnovisti aderirono alla tradizione iniziatica dei Fedeli d’Amore,
facendo della loro scrittura un mezzo di comunicazione, ammantato di mistero e
denso di simbolismo, attraverso cui tramandare non una conoscenza astratta e
chimerica, bensì una descrizione, un racconto, di quel viaggio esoterico (dal
greco esoterikos: interno) che conduce, in tutte le scuole di
pensiero gnostico iniziatico, alla Trascendenza, cioè al Dio Intimo che c'è in
ognuno di noi.
Poco
importava se l’illuminazione, che costituiva la scintilla iniziale di questo movimento
mistico (come si legge nel Dizionario
Etimologico della Lingua Italiana, questo termine deriva dal latino mysticus, arcano, e dal greco myein, nascondere, tacere: identifica qualcosa
che ha “carattere di spiritualità allegorica”), portasse ad un insegnamento
impartito nell’ambito di una congrega circoscritta a pochi "eletti” o meglio
dire “auto-eletti” perché questa appartenenza esclusiva non dipendeva altro che
dall’impegno nel negare se stessi per affermare il proprio Essere.
La scrittura,
così intima e profonda, degli stilnovisti si protendeva nella ricerca delle
origini e della natura del sentimento d’amore divino che travolge tutti i
sensi, li mescola in un turbine di emozioni e li assimila nella coscienza. Lo
scrivere stilnovista descriveva questa ricerca del divino amore (che coinvolge
tutte le facoltà percettive fisiche e animiche dell’individuo) e ricalcava il
sentiero lastricato di gioia e dolore che conduce a Dio. La bellezza femminea
rispecchiava, ai suoi occhi, la bellezza incorporea di Dio e in particolare di
una parte di noi stessi: l'Anima Divina (per la mancanza di questa nostra metà ci
sentiamo soli e cerchiamo, sbagliando, una donna o uomo fisico che la
sostituisca come fine dell’esistenza mentre l’uomo e la donna sono soltanto veicolo
l'un dell'altro per incontrare tramite l'amore umano, sacro e sessuale, la
propria metà dell'Anima dentro se stessi).

La bellezza
della sposo-sposa, ripeto non solo fisica, ma come virtù intime, al contempo,
rimandava un’immagine doppia. Da un lato lo splendore e l’incanto delle sue
forme erano involucro di sembianze angeliche (“Tenne
d’angel le sembianze/ che fosse del tuo regno;/ non me fu fallo, s’in lei posi
amanza”, da G. Guinizzelli, Al
Cor Gentil Reimpaira Sempre Amore, vv 57-60) e riesumavano lo spirito verso
dimensioni paradisiache in cui la donna appariva come una cosa venuta “da ciel
in terra a miracol mostrare“. Dall’altro, il corpo della donna o dell'uomo se
vissuti come oggetto di passioni terrene era considerato (e lo è) in grado di
far precipitare l'essere umano verso gli Inferi, vissuti anche in vita come
desiderio insaziabile, in un volo a planare verso l’Ade, dove dolore e tormento
regnano sovrani.
Il magma di
questi sentimenti angelici e impulsi distruttivi richiama la materia prima del
procedimento alchemico che attraverso l'amore divino nella sessualità purifica e
trasforma tutto in “pietra filosofale”.
La filosofia
stilnovista dovette risentire anche dell’influsso di tanta parte di quella filosofia
che si andava diffondendo attraverso opere varie e veniva discussa nelle
diverse scuole religiose, ermetiche, e non, dell’epoca.
Uno dei
pensatori più apprezzati fu, infatti, S.
Bonaventura con la sua “metafisica della luce”. Dante ne discusse ampiamente i
principi, in seguito alla morte di Beatrice (1290), quando prese parte ai
dibattiti sollevati dagli ordini monastici Francescani e Domenicani. Vale, a
tal riguardo, la pena di ricordare la dottrina invocata dal santo, secondo la
quale l’uomo è dotato di un aspetto corporeo – la materia – e di uno incorporeo
– lo spirito. La materia va attribuita tanto agli esseri corporei, quanto a
quelli spirituali: è l’evoluzione di materia di livello di coscienza che
differenzia le due dimensioni.
La luce,
prima manifestazione del trascendente, si proietta così non solo attraverso le
Intelligenze superiori (gli angeli), ma anche attraverso gli esseri umani
eletti a sollecitare, nei propri simili, l’anelito alla conoscenza del Dio
Intimo.
Dante,
Cavalcanti, Gunizzelli e gli altri stilnovisti avrebbero cercato, così,
attraverso l’esperienza d’incontro carnale e visivo con la donna, la propria
strada – personalissima ed individuale – verso l’essenza delle cose oltre il
sipario della materia. Ciò che li accomunava, quindi, non era tanto il percorso
intrapreso (che si dipanava in modo differente secondo le tappe realizzate e delle
emozioni provate) né l’intuizione propulsiva alla “luce”, quanto le modalità
attraverso cui perseguire l’ispirazione della propria coscienza. Un simbolismo
per l’appunto “esoterico” – sempre nel senso di “interno” – finì così col
sottendere, secondo gli studiosi, un modus scrivendi condiviso, veicolo di una
tradizione millenaria da tramandare in un linguaggio cifrato.
Convergendo
con l’idea secondo cui l’intera Natura sarebbe ammantata da un codice che, lì
dove svelato, condurrebbe a Dio o, almeno, aprirebbe nuovi varchi alla Sua
conoscenza (si legga, a tal riguardo, nel Theologicorum di T.
Campanella: “La natura è il libro dei libri, il codice primo,
superiore a tutti gli altri, compresa la Bibbia, che Dio ci ha concesso perché
avevamo bisogno di un codice più facile.”) e richiamando il concetto di archetipo,
c'è bisogno di una conoscenza gnostica iniziatica per decifrare le allegorie
nascoste nel linguaggio degli stilnovisti e recuperarne il legame con i dettami
insiti alla filosofia dei Fedeli d’Amore. Decifrando: l’amore stesso diventa amore
per la sapienza suprema; la donna diventa l’iniziatrice, il Fedele d’Amore; la
Madonna Intima o Divina Madre Kundalini Particolare è la Sapienza stessa;
l’atto del piangere diventa simulazione di appartenenza alla Chiesa ufficiale,
ecc…
In questo
contesto la Divina Commedia di
Dante, analizzata in ogni minimo dettaglio dalle più disparate scuole di
pensiero, è in realtà il racconto di un cammino iniziatico, il personale
cammino iniziatico di Dante, che comincia nelle viscere della terra (allegoria
del VITRIOL alchemico: Visita
Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem, visita le
viscere della terra e, seguendo la retta via, correggendoti, troverai la pietra
occulta) dove l’animo umano si trova al livello più basso dello stadio di
coscienza e le passioni, i sentimenti e i difetti psicologici si mescono in una
massa informe e caotica.
Il cammino
continua attraverso tutta l’eliminazione dell’Io, che annuncia la liberazione
finale e conduce alla dimensione empirea, imbevuta di luce, dove l’anima può
riconciliarsi con la sua fonte: il Dio Intimo. Ora Dante, fuso con il proprio
Essere, non si può più chiamare con il suo nome ed i titoli di poeta o
scrittore, ma Venerabile Maestro Spirituale!
V.M.J.