di
Giuseppe Sermonti,
da La mela di Adamo e la mela di Newton, Milano, Rusconi, 1974, pp. 22-35.
L’ultimo ribelle ha cacciato Dio e i suoi arcangeli dal loro paradiso.
Spodestato Dio, l’uomo, solo nel creato, chiede obbedienza all’uomo e si
ribella a se stesso. Senza un termine sul quale misurarsi, senza
un’altezza verso cui ascendere, senza una norma superiore per la sua
vita, egli non può che rivolgersi contro se stesso, che attentare alle
ultime umane grandezze, che premeditare la propria distruzione.
Le tre rivolte dell’uomo
Benché ogni ribellione umana abbia sempre come ultimo scopo la
ricerca della conoscenza, il significato che questa conoscenza assume
nei miti antichi e nella moderna mitologia della scienza è profondamente
diverso.
Per Adamo conoscere significa perdersi nel disordine della realtà,
rifiutando la serenità del paradiso, sperimentando il dolore e l’amore,
la nascita e la morte. Lasciando l’Eden, minacciato dalla spada divina,
egli accede a quel mondo di angoscia e di passione che sarà per sempre
la dimora dell’uomo mortale, il mondo del bene e del male, della colpa e
del perdono, dell’intimo e del personale.
La rivolta di Prometeo contro Giove sembra prefigurare invece la
ribellione rinascimentale e la nascita della scienza moderna. Ma l’uomo è
sullo sfondo del dramma, spettatore, mentre la scena è dominata dalla
figura straziata di Prometeo incatenato, protagonista perché soffre,
libero perché legato, punito e arrogante. La conoscenza, innocente e
anzi utile di per sé, è causa di una pena millenaria, di una condanna
senza fine: anche per Prometeo conoscenza è sofferenza. I suoi ritrovati
e le sue medicine fanno ancora parte, nel mondo classico, della
religione.
Neppure la ribellione dello scienziato moderno rappresenta la ricerca di
un mondo proibito o malvagio: essa consiste nel rifiutare alle leggi
naturali ogni riferimento mitico, nel rivendicare la più completa
autonomia dal sacro, nel pretendere la conoscenza senza un prezzo, senza
un dramma. Se Adamo si piega a Dio, se Prometeo incatenato ancora grida
contro Dio, l’ultimo ribelle ne ignora la presenza, la considera una
superstizione e non si oppone a Dio semplicemente perché giudica che non
sia mai esistito. La scienza moderna considera ogni dramma come
malattia, ogni mito come fantasia, e cerca in se stessa le proprie
ragione e i propri fini.
Il suo mondo non e la valle di lacrime dove vivono i figli di Adamo, è
una valle senza lacrime, più solitaria e più remota ancora della dimora
trovata dall’uomo dopo la cacciata dall’Eden.
L’ultimo ribelle ha cacciato Dio e i suoi arcangeli dal loro paradiso.
Spodestato Dio, l’uomo, solo nel creato, chiede obbedienza all’uomo e si
ribella a se stesso. Senza un termine sul quale misurarsi, senza
un’altezza verso cui ascendere, senza una norma superiore per la sua
vita, egli non può che rivolgersi contro se stesso, che attentare alle
ultime umane grandezze, che premeditare la propria distruzione.
All’uomo moderno è stato chiesto di optare tra il mondo mitico-religioso
rimasto in eredità agli uomini dopo il peccato di Adamo o di Prometeo, e
un mondo razionale, disegnato nel vuoto dalle ipotesi della scienza.
Tra l’esistenza in una dimora antica densa di significati e di mistero, e
un’avventura nel nulla inesplorato.
Mai potremo, come uomini, risolvere questo dilemma, poiché di una sola
cosa siamo sicuri, che il vero non è né nella valle di lacrime, né nella
valle senza lacrime, ma in un luogo irraggiungibile, al di fuori del
mondo e del tempo. E allora conviva la fede dell’uomo con il suo
capriccio. Ardisca pure l’uomo di spostare la terra dal centro
dell’universo e farla ruotare nel vuoto intorno al sole, come i pianeti
di Copernico o le masse di Newton. In una diversa dimensione seguiterà
sempre il carro del Sole a percorrere le costellazioni dello Zodiaco,
intorno alla Madre Terra, in un eterno itinerario, creatore di valori,
di orientamenti e di destini. Studi pure l’uomo la fuga delle galassie o
l’età dell’universo, ma torni poi a guardare verso le montagne del
tramonto, ove Atlante sostiene sulle spalle il firmamento. Noi sappiamo
l’universo immane e vuoto, né mai esso potrebbe trovare appoggio sulle
spalle di un gigante; ma un altro gigantesco sforzo sarà necessario,
quello di tenere la volta del cielo lontana dalle cose della terra,
perché il finito non si dissolva nell’infinito, perché il mortale non si
annulli nell’eterno.
Nell’arrogante rifiuto del divino e del mitico, la scienza moderna si è
privata della sua stessa ragione, ha perduto i suoi limiti, ha
smantellato il suo scenario, facendo della ragione, nata ribelle, una
dispotica divinità. Ha abbandonato l’ontogenesi mitica dell’uomo, ma ad
essa non ha saputo sostituire che una macabra fantasia di crani fossili,
immaginando una genesi di cui non si hanno che poverissime
testimonianze. Nello spirito della scienza, questa genesi non avrebbe
dovuto occuparsi di valori, ma offrirci soltanto una filogenesi
zoologica, neutrale come la genesi dell’armadillo. Ma come la ragione si
era vestita da dea, così l’origine paleontologica dell’uomo generò un
goffo mito, quello dell’uomo-scimmia, che pretese di trovare spazio in
qualche luogo del Genesi, al primo capitolo di una posticcia bibbia
laica.

Il mito evoluzionista
Il mito dell’uomo-scimmia fiorì nella seconda meta del secolo scorso,
dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) di Charles
Darwin. Non era cosa del tutto nuova, perché già il nonno di Charles,
Erasmus Darwin, se ne era fatto promotore nella sua Zoonomia (1796);
Coleridge aveva definito quest’opera «lo stato di natura o la teologia
dell’orang-utan capostipite della razza umana, in sostituzione al primo
capitolo del Genesi». Anche Jean Baptiste, conte di Lamarck, aveva
parlato di una scimmia umana nella sua Philosophie zoologique del 1809.
Ma Darwin si risentiva se gli si menzionavano questi precursori, verso i
quali era convinto di non aver alcun debito. Nella sua Origine delle
specie si parla pochissimo dell’uomo; quando nel 1871 pubblicò l’Origine
dell’uomo, Darwin si pronunciò sulle ascendenze e affinità della nostra
specie con poca convinzione, tanto da sembrare, fra tutti i darwinisti,
il meno deciso al riguardo. Egli non riusciva ad attribuire alla
selezione naturale, la sua grande idea, le variazioni tra le razze
umane, e doveva ammettere che «nessuna delle differenze esterne tra le
razze umane è di qualche diretto o speciale vantaggio per l’uomo»(1).
In complesso, anche nell’Origine dell’uomo Darwin è molto incerto
nell’affidare all’uomo un preciso antenato. Soltanto alla fine del sesto
capitolo, Delle affinità e della genealogia dell’uomo, egli afferma: «I
simiadi allora si sono divisi in due grandi rami, le scimmie del nuovo e
quelle dell’antico continente, e da quest’ultime, in un antichissimo
periodo, è derivato l’uomo, meraviglia e gloria dell’Universo. Così
abbiamo dato all’uomo una genealogia di prodigiosa lunghezza, ma non si
può dire di grande nobiltà… A meno di voler proprio chiudere gli occhi,
possiamo, mercé le nostre attuali cognizioni, riconoscere
approssimativamente il nostro parentado; e non dobbiamo arrossirne».
Abbiamo celebrato in questi anni, con religiosa compunzione, il
centenario della pubblicazione delle due Origini darwiniane,
dimenticando, per eccesso di riguardo, a quali folli illazioni il mito
dell’uomo-scimmia abbia dato esca; e i responsabili sono stati non solo
alcuni epigoni dell’evoluzionismo, ma gli stessi Charles Darwin e Alfred
Russel Wallace che contemporaneamente formularono «la teoria che
avrebbe cambiato il mondo».
Si possono classificare queste illazioni in tre gruppi: il primo
riguarda il processo dell’evoluzione all’interno dei popoli civilizzati,
il secondo si occupa di quel processo nei conflitti tra popolo e
popolo, il terzo riguarda la visione finale dell’evoluzione.
Secondo Darwin e Wallace, l’evoluzione era avvenuta attraverso la scelta
dei più adatti nella lotta per la sopravvivenza. Se quindi i popoli
civilizzati dovevano continuare a evolversi (e chi oserebbe negarlo?),
era loro dovere seguitare a praticare questa lotta per la sopravvivenza,
e curare l’eliminazione costante dei non adatti. Morale:
«Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta; e non si deve
impedire con leggi e costumi ai migliori di avere successo e di allevare
il maggior numero di figli.»(2)
Dovremmo fare preziosa esperienza di ciò che praticano i selvaggi e gli allevatori di animali.
«Tra i selvaggi, i più deboli fisicamente o mentalmente sono presto
eliminati; e coloro che sopravvivono presentano di solito un vigoroso
stato di salute. Noi uomini civilizzati, d’altra parte, facciamo del
nostro meglio per ostacolare il processo di eliminazione […]. Chiunque
abbia qualche esperienza nell’allevamento di animali domestici si
renderà facilmente conto del fatto che tutto ciò può essere estremamente
negativo per il futuro della razza umana […]. Tranne che nel caso
dell’uomo, nessuno è così ignorante da permettere ai suoi animali
peggiori di figliare.»(3)Nei confronti della lotta tra le razze, gli
evoluzionisti erano ancora più brutali. Se le specie si evolvono
attraverso l’eliminazione delle razze meno adatte, che cosa impediva che
questo processo arrivasse rapidamente a conclusione? Come l’uomo si era
quasi liberato dei suoi antenati scimmieschi, cosi le razze civili
avrebbero liberato la terra dall’incomodo delle razze non civilizzate.
«Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato in secoli»
scrive ancora Darwin(4) «è quasi certo che le razze umane incivilite
stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo alle razze selvagge.
Nello stesso tempo le scimmie antropomorfe, come nota il professor
Schaaffhausen, saranno senza dubbio sterminate».
«E tutti i continenti», scriveva Darwin a Hocker nel 1865, «brulicheranno di uomini di valore e di dottrina…».
Questa prospettiva di eliminazioni e di stermini era in verità un po’
sgradevole, e lo stesso Darwin ne era turbato; ma era inevitabile, come
il progresso della specie umana. E ne valeva la spesa. La continua
prevalenza delle razze «più intellettuali e morali» sulle razze
«inferiori e più degradate» avrebbe ricondotto l’uomo a un paradiso
terrestre che, secondo A. R. Wallace(5), sarebbe stato abitato
«da una singola razza omogenea, nella quale nessun individuo sarà
inferiore ai più nobili esemplari dell’umanità oggi esistente. Ciascuno
realizzerà allora la sua felicita in relazione con quella degli altri;
non ci sarà più bisogno di leggi restrittive, perché ogni uomo sarà
guidato dalle leggi migliori […] e l’umanità avrà infine scoperto che le
restano soltanto da sviluppare le facoltà della sua natura superiore
per convertire questa terra, già interminabile teatro delle sue passioni
sfrenate e scenario di miseria inimmaginabile, in un paradiso simile a
quelli vagheggiati nei sogni dei visionari e dei poeti».
Qualche anno prima, nel 1860, Darwin aveva scritto a Lyell:
«Non so spiegare perché, ma provo un’infinita soddisfazione nel credere
che l’umanità progredirà a un livello tale che noi, guardando a ritroso,
saremo costretti a considerare noi stessi come veri barbari»(6).
È stato fin troppe volte osservato che queste concezioni
evoluzionistiche trovano un parallelo, oltre che nell’allevamento degli
animali domestici, nel capitalismo borghese, nella competizione
economica, nel colonialismo, nell’imperialismo. È stato osservato che
certe visioni paradisiache riflettevano l’ottimismo della borghesia
vittoriana, le cui risorse derivavano dallo sfruttamento del
proletariato e dalla schiavitù coloniale. Eppure lo scientismo ufficiale
ha preferito chiudere un occhio su queste considerazioni, difendendosi
dietro la neutralità della scienza, proprio quando la scienza era ormai
entrata in campo a sostegno dell’industrializzazione.
Diciamo questo, non nel senso che il capitalismo o il colonialismo
sarebbero sorti dalla teoria dell’evoluzione; al contrario, proprio le
nuove «rivoluzionarie» teorie scientifiche sono state ispirate e
adottate da un’ideologia politico-economica(7), che vi ha trovato un
impianto «scientifico» per sostenersi e insieme una «mitologia» su cui
fondarsi. Il darwinismo ha reso corrente l’abitudine di usare i dati
della scienza come basi d’appoggio per la filosofia, la politica e
l’etica.
La teoria evoluzionistica si poteva accordare, e ciò è puntualmente
accaduto, con ogni genere di ideologia. E così abbiamo avuto un
evoluzionismo anarchico, un evoluzionismo socialista, un evoluzionismo
nazista, un evoluzionismo cattolico.
L’evoluzionismo ha potuto giustificare altrettanto bene la lotta per la
reciproca sopraffazione come la fratellanza universale. «L’uomo deriva
dalla scimmia», scriveva il filosofo russo Soloviev, «dunque amiamoci
l’un l’altro». Ha giustificato lo sterminio delle razze inferiori o il
rispetto della variabilità razziale: preservare la variabilità è
indispensabile per l’evoluzione. Ha patrocinato l’ineguaglianza o
l’uguaglianza tra le razze, e non gli è occorso neppure un grande sforzo
di fantasia.
Anche l’escatologia evoluzionista non è affatto in realtà così
paradisiaca come nelle frasi citate di Wallace e di Darwin e nelle
utopie di Herbert Spencer. Il cugino di Darwin, Francis Galton, guardava
con apprensione al destino biologico dell’uomo civile che, non
esercitando più l’eliminazione dei minorati, tendeva a un graduale
declino. Egli richiamò l’attenzione sul fatto che nelle classi nobili e
più ricche le famiglie erano meno numerose che nelle classi inferiori;
queste ultime avrebbero quindi finito col prevalere abbassando il
livello intellettuale e morale della popolazione. Peraltro, Darwin
sapeva bene che il risultato dell’evoluzione è di regola l’estinzione, e
solo in pochissime linee di discendenza si realizza un reale
miglioramento biologico.
Una teoria o un processo scientificamente accertato non legittimano
nessuna speciale ideologia politica o sociologica, o, se vogliamo, le
legittimano tutte. Il darwinismo si è reso colpevole di aver impiantato
il bivacco della scienza sul terreno dell’etica. Ai tempi di Darwin
sembra che, tra gli evoluzionisti, solo il suo amico e sostenitore
Thomas Huxley si rendesse conto delle illecite trasposizioni dalla
storia naturale alla morale che si andavano perpetrando. Egli protestava
che la legge della giungla non si addiceva agli esseri umani, e che il
processo etico della società non consisteva nell’imitazione dello
sviluppo naturale: semmai, nel tentativo di opporvisi. Ma la teoria
darwiniana conquistava il mondo proprio perché si prestava cosi bene
alle contraffazioni sociologiche. Thomas Huxley non poteva essere
compreso, e il suo illustre nipote Julian avrebbe scoperto più tardi,
nel 1943, che la legge della giungla si applicava perfettamente bene
anche al mondo morale e che l’etica non è un corpo di principi
stabiliti, ma essa stessa il prodotto dell’evoluzione. Il nostro mondo
morale resterebbe così affidato alla sopraffazione ideologica e alle
tecniche della persuasione, con il placet dei naturalisti.
«Nell’era moderna», scrive Giorgio Celli, «[l’ideologia] si muta in una
superfetazione della scienza. Ma non per questo l’ideologia acquista una
dignità scientifica, dato che essa, per sua natura, comincia proprio la
dove la scienza finisce. Infatti, se la scienza procede per inferenze,
l’ideologia opera per illazioni. Rispetto alla scienza, quindi,
l’ideologia è sempre un insieme di illazioni sistematiche e
tendenziose»(8).
Considerazioni come queste gettano un inquietante sospetto sulle
affermazioni tante volte ripetute che la conoscenza scientifica è
libertà, mentre l’ignoranza è schiavitù. Il sospetto è che la conoscenza
scientifica stia diventando l’impalcatura su cui è pronta a insediarsi
qualsiasi funesta ideologia; che il bimbo di Taungs o la ben conservata
signora Ples non siano gli anelli mancanti di una catena che connette
l’uomo con la scimmia, ma le «prove tangibili» di una ideologia del
progresso o della bestialità, dell’amore basato sull’anatomia comparata o
della guerra dell’uomo contro l’uomo, dell’avvento del paradiso
terrestre nella storia o del prossimo passaggio della nostra specie al
concreto mondo dei fossili.
L’evoluzione, come ogni altro dato o teoria della scienza, appartiene a
quella sfera della conoscenza che non produce verità etiche, che non si
pronuncia in merito al bene e al male, né può farlo. Essa e lì, come
modello neutrale cui solo si può chiedere di risolvere un enigma o di
fornire una metafora, ma se vuole restare fedele alla sua natura
scientifica non può confrontarsi con alcuna genesi mitica o religiosa.
Non si ricavano valori dalla scienza, perché «la conoscenza in sé
esclude qualsiasi giudizio di valore mentre l’etica, non oggettiva per
sua stessa natura, è sempre esclusa dal campo della conoscenza».
Così scrive Jacques Monod(9). E risponde con franchezza a chi teme nella
scienza il sacrilegio e l’attentato ai valori: «Paura totalmente
giustificata. È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente,
poiché essa non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge
tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione
animistica, dagli aborigeni australiani ai dialettici materialistici, ha
fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni».
Bisogna però precisare che la scienza distrugge i valori proprio quando
pretende di farsi fondatrice di valori, quando cerca di porre, in luogo
delle ontogenie mitiche e nella dimora degli dei respinti, i suoi
reperti, i suoi principi e i suoi strumenti.
Se un processo naturale o una legge scientifica ci potessero essere
proposti a modello di comportamento per il solo fatto di essere
osservati, allora tutto sarebbe giustificato. Il delitto più orribile è
pur sempre un evento naturale, perfettamente in regola con le leggi
dell’antropologia e della sociologia, e lo si può considerare
trascurabile solo perché è un evento marginale, ma un genocidio in piena
regola è un evento notevole e degno del più attento riguardo nel quadro
dell’evoluzione biologica.
I processi naturali, o gli esseri e gli oggetti che ci circondano,
possono servirci come termini di paragone e di riferimento, come emblemi
o insegne; anzi, non potremmo parlare senza le metafore tratte dalla
natura. Ma solo l’arrogante banalità dei materialisti del secolo scorso
ha potuto prendere sul serio queste realtà come guide a una nuova etica.
Questo modo infantile di trarre illazioni e ancora diffuso, e un
distinto naturalista contemporaneo, Bentley Glass, ha scritto in anni
recenti(10): L’etica di una società umana statica non può far fronte a
una situazione evolutiva. Essa deve essere rimpiazzata da un’etica che
tenga conto della natura umana in evoluzione sia biologica che
culturale. La nostra crescente saggezza deve essere basata su una
visione evolutiva del passato, del presente e del futuro dell’uomo, e su
una conoscenza dei modi in cui il processo evolutivo può essere
controllato».
Questo innocente discorso è in realtà una serie di disinvolte
mistificazioni. Bentley Glass, e con lui tutti gli evoluzionisti
contemporanei, sanno benissimo che la natura umana non è affatto in
evoluzione biologica, e che per almeno cinquantamila anni rimarremo
identici a quelli che siamo, sempre nell’ipotesi che non intervenga una
degenerazione. Per quanto riguarda l’«evoluzione culturale», se essa
deve significare la lotta per la vita trasferita sul piano delle
ideologie, allora non resta che attendersi una catena di sopraffazioni
spirituali senza altra misura che il successo, una trasformazione
irresponsabile di idee e di costumi, sostenuta dalla pretesa che
comunque si proceda si andrà verso il bene, purché si proceda.
Vogliamo proprio ascoltare questi sacerdoti in camice bianco annunziarci
la lieta novella che qualunque novella è lieta, perché il nuovo è
sempre migliore del vecchio? L’evoluzione, come essi ci insegnano,
sarebbe il nostro dovere biologico. Ma poiché il novantanove per cento
degli «esperimenti evolutivi» finisce con un’estinzione, estinguerci è
forse la via più ortodossa che ci resta da seguire. Le nostre
straordinarie capacità di «dirigere la nostra evoluzione» possono
permetterci di accelerare questo processo come nessun animale è riuscito
a fare sinora. Questo è il destino che ci offre l’ultimo ribelle;
costui, rifiutati gli archetipi di Adamo peccatore e di Prometeo maestro
di frode, tolto dalla scena il Creatore, non si è accorto di offrire a
se stesso come archetipo e modello di sviluppo verso il progresso e la
razionalità un essere mansueto e sottomesso, l’animale da cortile o
d’allevamento. Non si è accorto di preparare a se stesso come destino
una prossima uscita dalla scena, per lasciare il posto a esseri più
razionali e meno sentimentali di lui, le macchine.
Note
1- C. Darwin, The Deccent of man, and selection in relation to sex, ed. 2, New York 1886, p. 314.
2- Ivi, p. 618.
3- Ivi, pp. 133-134.
4- L’origine dell’uomo, in Il meglio di C. Darwin, Longanesi, Milano 1971, pp. 270-271.
5- The origin of human races and the antiquity of man deduced from the
theory of “Natural selection”, in «Journal of Anthropological Society of
London», II, l864, pp. 153-160.
6- «Il positivismo mostra con molta chiarezza», scrive Camus, «le
ripercussioni della rivoluzione ideologica del diciannovesimo secolo, di
cui Marx è uno dei rappresentanti, e che ha consistito nel mettere alla
fine della storia l’Eden e la rivelazione che la tradizione metteva
alle origini del mondo» (A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano
1957, p. 216).
7- In verità, come scrisse Marx a Engels in una lettera del 12 giugno
1862, non era la sociologia «liberale» che derivava dall’applicazione
all’uomo delle conoscenze sulle piante e gli animali, ma al contrario
era il darwinismo che, secondo l’ammissione di Darwin, nasceva
dall’applicazione alle piante e agli animali delle teorie sociologiche
di Malthus sull’incremento delle popolazioni umane.
8- Nell’introduzione a Il meglio di C. Darwin cit., p. 65.
9- Op. cit., p. 139. 10- The centratity of evolution in biology teaching, in «American Teacher», vol. 29, 1967, p. 705.